INTRODUZIONE DELLA VITE IN GALLIA CISALPINA

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    La coltivazione della vite in Italia meridionale sembra risalire, con piena corrispondenza tra dati letterari ed archeologici, alla media età del Bronzo (intorno alla metà del II millennio a.C.) ed all’arrivo del mitico popolo degli Enotri (non a caso definiti da un nome derivante dal greco oĩnotros, “paletto da vino”), mentre fin dall’avanzata età del Bronzo appare ben attestata in Italia settentrionale solo la coltivazione di uva selvatica nelle vicinanze degli insediamenti, per scopi alimentari e per una probabile integrazione zuccherina delle bevande fermentate ricavate dal succo di bacche (corniolo, sambuco, mora di rovo) e frutti (sorba), come indiziato dagli stessi rinvenimenti archeologici.

    E’ possibile che, soprattutto a partire dalla zona dell’alto Adriatico, il commercio dalla Grecia micenea e protogeometrica (XIII-X secolo a.C.) abbia incoraggiato ed indirizzato, eventualmente, l’utilizzo ed una prima selezione finalizzata all’ingentilimento delle uve selvatiche locali, ma ancora all’inizio dell’età del Ferro (IX secolo a.C.) la diffusione della viticoltura in Italia doveva risultare sostanzialmente limitata all’Italia centro-meridionale, indipendentemente dal progressivo diffondersi del consumo e del commercio del vino attestato soprattutto nei centri marittimi.

    Tale situazione è evidentemente connessa alle differenze climatiche ed alla complessità e lunghezza del processo di selezione, innesto ed adattamento al clima continentale europeo dei vitigni, visto che l’Italia settentrionale non sembra differenziarsi come risultanze archeologiche dal resto dell’Europa temperata e l’Italia centro-meridionale dimostra anche in questo aspetto, come la penisola iberica, la sua stretta appartenenza alla fascia climatica mediterranea.

    IL RUOLO DEGLI ETRUSCHI ED IL PRIMO VINO DEI CELTI

    Con l’inizio dell’età del Ferro, e in particolare dopo l’VIII secolo a.C., un clima più asciutto, un progressivo consistente miglioramento della temperatura nelle stagioni intermedie e l’attenuazione delle punte fredde nella stagione invernale agevolano potenzialmente la diffusione della viticoltura anche in Italia settentrionale. L’evoluzione delle tecniche e l’ingentilimento dei vitigni selvatici da parte dei centri indigeni hanno nel frattempo reso disponibile i presupposti tecnici fondamentali per un salto di qualità nelle coltivazioni, ma un ruolo evidente nell’adattamento della vite coltivata in Cisalpina, con la predisposizione di varietà e tecniche colturali innovative, sembra concordemente assegnato sia dalle fonti storiche che dai dati archeologici agli Etruschi. Infatti, a partire dall’Emilia, nella prima età del Ferro in tutta la Cisalpina emerge il progressivo diffondersi della viticoltura; non solo i corredi tombali vedono moltiplicarsi il vasellame d’evidente carattere potorio, non giustificato su quella scala dal solo vino di importazione, ma diventano frequenti i reperti paleobotanici di vite coltivata. Risulta a proposito molto eloquente l’indicazione pliniana (Nat. Hist., XIV 39) che segnala la diffusione preferenziale a Modena ancora in età romana del vitigno dell’uva “perugina”; si tratterebbe dunque di una testimonianza diretta di ambientazione in Cisalpina di vitigni etruschi che, già acclimatati in zone interne ed appenniniche, potevano risultare più adatti ad affrontare i rigori del clima padano.

    Se Castelletto Ticino sembra documentare finora le più antiche importazioni di anfore vinarie dall’Etruria meridionale in Piemonte già alla fine del VII/inizi del VI secolo, attraverso un percorso marittimo e fluviale che valicava gli Appennini presumibilmente lungo una direttrice tra la Versilia e l’Emilia occidentale, analisi paleobotaniche sembrano indiziare che a partire da una fase corrispondente ad un avanzato Golasecca I C (fine del VII secolo) gli abitati di Castelletto ospitino già vite coltivata.

    E’ ipotizzabile un collegamento tra queste prime sperimentazioni e la diffusione immediatamente seguente in tutto il Novarese ed il Milanese della viticoltura secondo la tecnica etrusca dell’alteno o alberata (arbustum gallicum): nel corso della seconda età del Ferro ed in età romana i dati archeologici si affiancano ad un puntuale riscontro delle fonti storiche e ad una possibile identificazione del vitigno prevalente nel Novarese con la spionia/spinea descritta da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XIV 34), antenata dell’attuale vitigno dello Spanna, della famiglia del Nebbiolo. Appare probabile che questo nome si riferisca ad un antenato dell’attuale nebbiolo, visto che la testimonianza pliniana precisa che “sopporta il calore e matura alle piogge d’autunno”, è l’unica che “si nutre di nebbia”, produce grappoli più grossi che numerosi. Anche il richiamo in una falsa etimologia al pruno selvatico (spinus) concorda con la similitudine istituibile per la forma dei chicchi e la caratteristica “nebbiolina” (prüina) di cui i chicchi, come le susine, sembrano “nutrirsi”, che ha portato per lo spanna novarese alla definizione ossolana di Prunent. Questo antico vitigno, più generalmente assimilabile alla gallica di Plinio (Nat. Hist. XIV 39), appare dunque originato da una selezione particolare con innesti probabilmente di uve centroitaliche operata dagli Etruschi tra VII e V secolo a.C.

    Con il pieno V secolo la situazione appare ormai nettamente definita: la definizione di tipologie nuove e molto particolari di bicchieri, senza alcun legame il vasellame potorio del servizio da banchetto greco ed etrusco, presente solo in poche tombe principesche golasecchiane fin dal VII secolo, appare significativa per il possibile collegamento al consumo diffuso di una bevanda alcolica che dovrebbe essere con ogni probabilità il vino di produzione locale, essendo queste forme male associabili dal punto di vista della capacità e dell’ergonomia al consumo di birra. La rarità di anfore di produzione locale non rappresenta un elemento ostativo, essendo la viticoltura cisalpina già nella seconda età del Ferro, come attestato dalle fonti a partire dal II secolo a.C. e con grande evidenza nei rilievi funerari di età romana, legata all’uso della botte in legno di quercia; d’altra parte in realtà si registrano in effetti casi isolati ma eloquenti di attestazioni di anforacei locali, spesso mal riconoscibili nella frammentazione dei materiali di abitato. Un esempio incontestabile appare la piccola anfora di una tomba di Lumellogno (frazione di Novara), databile intorno al 450 a.C., la cui forma discende dalle anfore vinarie etrusche arcaiche importate a Castelletto Ticino tra la fine del VII ed il VI secolo, anche se il fondo piatto e la limitata capacità (stimabile in circa 3 litri) la caratterizzano più come recipiente per conservazione e decantazione che come anfora da trasporto; questa forma deve avere avuto una lunga tradizione nel Novarese se la si ritrova poco modificata nella tomba 49 di Gravellona Toce, databile a tarda età romana.

    IL VINO DEGLI INSUBRI E DEI LEPONTI

    La testimonianza pliniana (XVIII 25) colloca chiaramente nella terra del Novariensis agricola la specializzazione tradizionale in una coltivazione di vite in alberata con tralci di impressionante lunghezza (secondo la classica tecnica dell’arbustum gallico), che produceva vini aspri e torvi, cioè ad alto contenuto tannico. La descrizione degli scrittori antichi delle enormi botti della Cisalpina (“grandi più delle case” Strab. V, 12) per l’invecchiamento evidenzia come questi vini, probabilmente consumati puri o con scarsa associazione di resine, con una differenza marcata rispetto alle tendenze dell’enologia mediterranea e della stessa area ligure del Piemonte meridionale, forse legata all’abitudine celtica del consumo di birra pura rossa ad alta gradazione (cervisia), avevano necessità di una consistente ossigenazione. Greci, Etruschi e Romani tendenzialmente conservavano il vino in anfore, mantenendolo molto corposo e resinato e consumandolo fortemente annacquato, talvolta caldo, mentre Celti e Germani bevevano vino puro e non resinato né annacquato. Conseguentemente il mondo mediterraneo tende ad utilizzare come vasi potori ampie coppe (come la kylix o il kantharos) che permettono di assaporare meglio con l’odorato i forti aromi della bevanda, mentre l’Europa barbarica preferisce piuttosto bere il vino in bicchieri alti e stretti, che riducono l’evaporazione. Il modo medievale e moderno di bere il vino discende dal lento convertirsi del mondo romano ai gusti “barbari”, già nel corso dell’età imperiale, ed è anche per questo che, pur identificando i vitigni originari, non è facile immaginare il gusto vero dei vini del mondo classico.

    Fin dalla seconda età del Ferro l’associazione di falcetti da vino nelle tombe delle province di Novara e Verbania (Dormelletto, Oleggio ed Ornavasso), come simbolo esplicito di proprietà di vigneti e non come mero attrezzo di lavoro, documenta l’importanza già in età preromana di una produzione che non a caso si affianca alla eccezionale diffusione come vaso contenitore di un recipiente da mensa (“fiasca a trottola”) la cui tipica forma ripete in modo significativo quella di una odierna bottiglia da ossigenazione. In effetti, tra il II secolo a.C. e la romanizzazione, appare evidente a cavallo del Ticino l’areale di diffusione di questo tipico contenitore da vino, derivante dalla tradizione del “vaso a bottiglia” golasecchiano non senza influenze di forme tipiche del nord della Francia, diffuse nelle necropoli a seguito delle invasioni galliche del IV secolo. La riprova dell’utilizzo del vaso a trottola come contenitore di vino viene dall’iscrizione che riporta uno di questi reperti nel corredo della tomba 84 di Ornavasso, databile al primo quarto del I sec. a.C.: Latumarui Sapsutaipe uinom natom (“a Latumaro ed a Sapsuta un nantos – coppa o vaso o misura di capacità, da un termine celtico che significa alveo, conca, valle – di vino”). Questo testo ci restituisce il termine leponzio/gallico per vino, uinom, con evidente parallelismo ai corrispondenti termini diffusi in tutta Italia e fino all’area retica e venetica, a completare anche idealmente il collegamento dell’area insubre alla viticoltura centro-italica.

    OLPE A TROTTOLA UN VASO TIPICAMENTE CELTICO CISALPINO

    Il “vaso (o fiasca) a trottola” era un tipico recipiente in ceramica adatto a contenere il vino dei celti cisalpini dalla seconda età del Ferro (III-I sec. a. C.), fino alla romanizzazione del territorio padano, quando viene sostituita dalla brocca ansata di tipo romano (Lagynos).

    Deve il suo nome alla sua particolare forma: il ventre schiacciato e il breve collo con orlo ingrossato ricordano il giocattolo della trottola.
    La particolare forma del vaso a trottola, con l’imboccatura così stretta, permetteva la sigillatura con un tappo in qualche materiale probabilmente deperibile, come le attuali bottiglie per vino.
    L’area di concentrazione di questo tipico contenitore di vino per la tavola era lungo l’asse del Ticino e nei contesti più noti del mondo rurale e periferico della Lomellina tardo-celtica; ma esemplari sono stati trovati in area insubre e comense fino in territorio cenomane (Bresciano-Veronese), con qualche rara presenza anche oltr’Alpe.

    Si tratta di una forma ceramica tipicamente celtica e locale, di norma acroma. L’evoluzione della sua forma, che deriva dalla tradizione del vaso a bottiglia golasecchiano, è percorribile fino alla sua sostituzione, in età romana. Il tipo viene decorato, già nel II sec. a.C., con motivi dipinti e con differenziazioni stilistiche locali molto forti: da fasce rossastre, brune e marroni a campiture che nel tempo aumentano l’estensione e i tratti verticali.

    I bicchieri “tipo Aco” fanno parte di una vasta e fortunata produzione di vasellame fine da mensa, localizzata nell’Italia settentrionale tra la tarda età repubblicana e il periodo tiberiano, che deriva il proprio nome da uno dei maggiori vasai produttori, di ascendenza celtica che, come gli altri, era solito firmare le proprie opere. Sono vasi caratterizzati da raffinate decorazioni di tradizione ellenistica, ottenute per calco entro matrice.

    Questo esemplare, proveniente dallo scavo di strutture d’abitazione ritrovate sopra le tombe villanoviane del podere Benacci Caprara, presenta sul corpo uno dei motivi decorativi più singolari e diffusi, definito a “pioggia di virgole” (Kommaregen), con fitti triangolini a rilievo che rendono la superficie del vaso ruvida e quindi meno scivolosa. Sotto la fascia a motivi vegetali compare il marchio «C LAMPAT FIG», da sciogliere forse in Caius Lamius Patavinus Figulus, che si riferirebbe quindi a un artigiano della zona padovana.

    IL MUSEO DI BIASSONO

    I ritrovamenti archeologici che si sono susseguiti negli ultimi anni nel territorio di pertinenza del Museo di Biassono sono di vario tipo, dai resti di una villa romana, con annesso ripostiglio di monete romane, alle sepolture. Queste ultime, isolate o in necropoli, restituiscono sempre un corredo, a volte povero ma il più delle volte ricco di oggetti e di suppellettili.
    Il corredo, che accompagnava il defunto verso l’aldilà, era una usanza comune a tutte le culture o civiltà dell’antichità, dall’età del Bronzo alla romana. Il corredo doveva fornire al defunto anche cibo e bevande, che erano contenuti nei più comuni recipienti in uso in quel tempo.
    Piatti o patere, bicchieri (pocula), bottiglie e brocche contenevano cibi e bevande tradizionali. Il vino aveva un posto d’onore. Nelle necropoli rinvenute a Robbiano di Giussano e a Verano Brianza, in quelle di Biassono e di Vimercate, sono costantemente presenti questi contenitori. E non solo, anche le anfore da vino erano usate, non più per contenere la bevanda ma per accogliere i resti del defunto.
    A Robbiano di Giussano e alla Cascina Marianna di Biassono sono state ritrovate sepolture risalenti all’età tardo repubblicana (50-30 a.C.) di individui non ancora completamente romanizzati che utilizzavano ancora recipienti di tradizione celtica (insubre).
    La tomba ritrovata a Robbiamo di Giussano dal Professore Davide Pace contiene uno scodellone con i residui delle ossa raccolti tra le ceneri del rogo (ossilegio). Nel corredo è presente anche il caratteristico vaso a trottola miniaturizzato di tradizione celtica.

    Alla cascina Marianna di Biassono sono stati ritrovati molti oggetti di corredo, probabilmente pertinenti a più tombe, tutti di tradizione celtica. Si riconoscono i caratteristici “vasi a trottola” e bicchieri.
    Nelle necropoli della cascina Gallazza di Verano Brianza, in quelle di Biassono (cascina Monzina e altre) e in quelle di Vimercate, sono costantemente presenti le olpi o brocche monoansate (tipo di bottiglia o fiasca munita di ansa) risalenti all’età imperiale romana. Sono contenitori caratteristici per vino. La tomba cosiddetta “dell’olpe capovolta” di Verano Brianza conteneva anche un bicchiere e una elegante coppa biansata decorata a rilievo certamente utilizzata nei simposi.
    Nel corredo, oltre a una moneta di Tiberio (l’obolo di Caronte) ed altri oggetti, si notano un’olpe piriforme, un bicchiere con decorazione impressa a rotella e una coppa biansata “tipo Sarius”. Quest’ultimo è un raffinato recipiente prodotto fino all’età flavia (prima metà I sec.d.C.) con funzione simposiaca, come si evince dal repertorio decorativo prevalentemente vegetale, legato spesso al mondo dionisiaco.

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