I CELTI E L’INVENZIONE DEL FORMAGGIO IN GALLIA CISALPINA

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    Tra le numerose contaminazioni che hanno fatto grande la cucina italiana, ce n’è una forse poco conosciuta, eppure attualissima: quella celtica. A loro si deve, infatti, una buona fetta della storia del formaggio nel Nord Italia, dal bitto fino agli antenati del grana padano e del parmigiano reggiano. Basta osservare dipinti come quel curioso Sant’Uguccione ritratto nella Chiesa Vecchia di Santa Maria a Belgirate (Verbania): il santo, a detta degli studiosi, è la trasposizione cristiana della divinità celtica Lug, che l’antica popolazione raffigurava nell’atto di reggere il sole. E che, nella chiesa, più umilmente si limita… a tagliare una fetta di formaggio. Segno dell’inequivocabile connessione tra i Galli e la civiltà del formaggio, a sua volta derivante da quella misteriosa mutazione genetica che consentì, ai popoli indoeuropei, di digerire il lattosio anche da adulti. Ma quali sono i nostri formaggi eredi diretti della tradizione celtica?

    IL MONDO IN UNA FORMA DI FORMAGGIO.

    Il primo è anche uno dei più pregiati: il bitto. Nelle valli tra Gerola Alta e Albaredo si rifugiarono infatti numerosi Celti provenienti dalla Pianura Padana, in fuga di fronte all’avanzata della conquista romana. E appunto dai Celti deriverebbe la parola bitto, da “bitu”, vale a dire “perenne”, “durevole”: per sfamare la popolazione serviva infatti un prodotto in grado di durare nel tempo e di essere facilmente trasferito da un posto all’altro. I Celti, esperti conoscitori dell’uso del caglio, inventarono quindi questo formaggio, l’unico al mondo capace di durare oltre dieci anni. Più in generale, la romana Historia augusta parla di una famiglia di formaggi nelle Alpi occidentali definita genericamente “alpinus”, probabilmente un prodotto stagionato d’alpeggio a prevalenza di latte vaccino, originalmente cagliato con l’ausilio d’erbe montane aromatiche. A questa famiglia, oltre al bitto, appartenevano il bettelmatt della Val d’Ossola e il beddo biellese: lo stesso termine celtico “bitu”, però, ha anche il significato di “mondo”. E qui torna il nostro Sant’Uguccione. I Celti immaginavano infatti la terra come una grande forma di formaggio, leggermente convessa.

    L’INVENZIONE DEGLI ERBORINATI

    Da questo “alpinus” si pensa che derivino anche gli altri formaggi d’alpeggio, e alpini in generale: fontina, groviera, toma, maccagno e castelmagno. Ma ai Galli si deve con ogni probabilità anche l’invenzione dello stracchino, così chiamato perché prodotto con il latte di mucche “stracche”, in stalla, dopo le lunghe transumanze. Un latte con una ridotta quantità di materia grassa, più difficile da trasformare in formaggio: i Celti ci riuscirono con l’aggiunta di latte di pecora e muffa raschiata dal pane di segale. Plinio, in particolare, spiega che “il formaggio delle Gallie ha il sapore e la forza di una medicina”. Il gallicus citato anche da Columella potrebbe essere il capostipite dei formaggi erborinati (dal lombardo erborin, “prezzemolo”), progenitore del gorgonzola ma anche del roquefort francese e del murianengo o blu del Moncenisio. Il gorgonzola, in particolare, nel Novarese è anche detto “chèga”, che richiama il celtico “cagios” (“di stalla, di recinto”), termine che potrebbe essersi riversato anche nel “cacio” della lingua italiana. Le fonti greche e latine collegano ai Celti anche la realizzazione di un burro solido e compatto per conservare nel tempo le parti più grasse del latte. Da questo retroterra si capisce come, nel Nord Italia, possano essere nati nel Medioevo capolavori come il grana padano e il parmigiano reggiano..

    Da “La cucina italiana” articolo di Massimo Lanari.


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